Nel vialetto tra i campi da tennis c’è tanta ghiaia, troppa, una ghiaia grossa e rotonda che rende gravoso camminare. Come in certi sogni, spingo e spingo con i piedi, ma il risultato, in termini di avanzamento, è ben poca cosa. Assai più apprezzabile, invece, è il rumore prodotto, una specie di marmoreo e bovino sgranocchiare ad ogni passo. Ad aggravare la situazione, sulle spalle porto una borsa piena di indumenti sudati, dunque pesanti, poiché ho appena fatto sport e sto camminando, o qualcosa del genere, verso la macchina. Al campo numero tre, che si trova giusto alla mia sinistra, noto che sta per iniziare una partita di torneo sociale. Diffidate da questo tipo di gare, capitassero mai
sulla vostra strada, poiché vivono di una falsità di fondo. Essendo una competizione tra soci dello stesso club, il risultato dovrebbe rivestire un’importanza relativa, e dovrebbe viceversa prevalere uno spirito cavalleresco o addirittura cameratesco. Bull shit, come dicono gli americani nelle serie tv. In realtà nessuno, ma proprio nessuno, vuole perdere, a maggior ragione queste sfide. Poiché il risultato diventa argomento di discussione e perfida ironia verso lo sconfitto sotto la doccia, in sauna, nel bagno turco, al ristorante, al bar, ovunque si parli di qualcosa oppure di niente. Dunque noto che sta per iniziare una partita di torneo e vedo che in campo c’è un mio amico. Sta per affrontare un tennista spigoloso, grande e grosso, che non sbaglia mai e quando colpisce la palla grida come se gli strappassero i peli delle ascelle. Uno che si allena tanto e con grande serietà. Non che tiri fortissimo, ma dà alla palla molta rotazione e insomma affrontarlo non è mica semplice. Il mio amico, che sta bevendo un sorso d’acqua prima che la partita abbia inizio, mi vede. Allora fa due passi verso di me, che rumoroso avanzo nella ghiaia, e senza pietà mi chiede un consiglio per affrontare il temibile avversario con il quale, sino a quel giorno – aggiunge quasi sconsolato – ha sempre ha perso. Il setting è quello che è, l’ispirazione anche e dare consigli non è proprio il mio mestiere. Però il mio amico è persona sensibile, gentile, simpatica e molto religiosa, ma per davvero, non di quelli che vanno a messa e buonasera. Così decido di fare quello che non si fa mai e commetto un’eresia metodologica: senza sapere, sulla partita, nulla più di quello che ho scritto, mi avvicino e gli dico la mia, me la rischio. Gli ricordo che nell’antichità il legame tra giochi olimpici e divinità era assai forte. E gli propongo di interpretare quella partita un po’ come un atleta di quei tempi lontani, come un modo per onorare il Dio in cui crede e un ringraziamento per avergli dato la possibilità di trovarsi lì, quel giorno, a fare una cosa che ama tanto: giocare a tennis. Lui respira ampio, mi guarda, annuisce e fa un sorrisetto a mezza bocca, così, come chiosa. Pare che tra lui e me, in quel momento, passi una folata d’aria pulita, nuova. Poi cammina bello vispo verso la linea di fondo campo e si prepara a rispondere al servizio del temibilissimo. Io mi volto, nuovamente, verso la fatica che mi aspetta. Sento l’altro che serve la prima palla e grida, immagino una ciocca di peli di ascella stretti tra le dita di una mano e riprendo, sia pure un poco più leggero, ad affondare nella ghiaia.
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