Fare qualche cosa di utile per altri.

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Da pochi minuti è passata la mezzanotte durante l’ennesimo turno ospedaliero di guardia chirurgica notturna e il “telefono del guardiano” decide di troncare la quiete apparente. Ciò che ci si aspetta in questi casi segue la regola del “tutto o nulla”, distorta nella sua accezione più nota, ma che descrive bene quello che può accadere: dall’emergenza fino allo scherzo telefonico, passando attraverso richieste facili o più complesse da sbrigare, ma che per la maggior parte dei casi hanno a che fare con ciò per cui mi trovo a coprire il turno e che si alternano tra diagnosi e terapie.

Questa volta non è così, perché il centralinista, a notte ormai inoltrata, decide di passare una telefonata che viene dall’esterno sia dell’ospedale sia dei canoni classici a cui ci si attiene affrontando un servizio di disponibilità per ragioni, almeno in qualche modo, relative alle pratiche chirurgiche.

La voce preoccupata di una donna, ragionevolmente intorno all’ottantina, si altalena tra l’ostentare il diritto ad avere notizie riguardanti la salute della sorella ricoverata e il fatto di avere già avuto informazioni in precedenza da colleghi che, parafrasando, non sono stati adeguatamente esaustivi nel rispondere all’interrogazione.

Ho già vinto. Il compito che mi viene proposto questa volta è davvero troppo semplice. La mia interlocutrice ha davvero poche chance di trattenermi al telefono. Si è presentata da subito arrogante, contraddittoria, fuori luogo, incalzante e irragionevolmente interrogatoria verso uno sconosciuto medico di guardia che per giunta potrebbe non avere mai visitato la parente. Ovvio che non abbia nessun obbligo nel continuare a sentirmi intimidire sgraziatamente e senza ragione. Questione di un secondo interrompere la telefonata o forse, con più gentilezza, di qualche minuto, glissando con eleganza e concedendo qualche monosillabo di circostanza.

O forse no?

Beh, Ho diverse altre questioni da risolvere, che riguardano più strettamente le mie competenze. Ci sono alcuni consensi informati da controllare, relativi agli interventi del giorno successivo, un bel guaio se non fossero compilati correttamente e firmati. Gli esami del pomeriggio non sono ancora stati valutati e potrebbero esserci correzioni da apportare negli schemi di terapia. Il programma per le indagini radiologiche di domani non sono ancora pervenute in reparto, bella organizzazione, altra grana da risolvere. La check list preoperatoria del primo intervento è da rivedere di certo, è la regola. Le mail aziendali non ancora lette sono decine, ci vorrà un’ora. L’ordine dei prodotti necessari all’intervento chirurgico di lunedì non è ancora stato evaso, ci vorrà la solita relazione. Poi non ho ancora terminato di organizzare le sedute operatorie della prossima settimana, meglio se ritaglio qualche minuto. Il tempo necessario alle scartoffie è davvero molto, ma necessario al buon funzionamento di tutto il meccanismo lavorativo. Hanno anche pubblicato il nuovo protocollo di gestione delle ferite chirurgiche, devo leggerlo.

O forse no?

Certamente, protocolli e linee guida sono una sorta di libro sacro a cui appellarsi di fronte a dispute con colleghi facilmente irritabili o peggio ancora in corso di procedimenti medico-legali. Appunto, i cosiddetti “casini” in gergo, sono una bella preoccupazione, ma la sacrosanta attenzione alle norme, nel tempo, si è trasformata in una accurata e deterministica selezione di azioni per la sopravvivenza: ad azione preventiva segue un risultato comunque previsto. Sarò salvo se farò questa serie di passaggi regolari e

controllati, almeno sulla carta, ovviamente. Le conseguenze del mio operato saranno lì nero su bianco, non sarò inattaccabile, ma almeno ci sarà qualcosa su cui discutere. Mi sento ben corazzato con assicurazione personale e protocolli, adempio con diligenza il mio compito istituzionale.

O forse no?

Mi sento percosso dalla voce telefonica dell’anima gentile che, mentre cerco un buon motivo per terminare la chiamata, continua a bersagliarmi i timpani con parole che però a un tratto mi sembrano prendere una valenza, iniziano a significarmi qualcosa, la donna vuole dirmi qualcosa che non riesce a esprimere a parole, ma ora mi è chiaro che ho un’altra paziente che sta dall’altra parte del telefono. E’ ansiosa, preoccupata, tormentata e mi sta chiedendo di fare qualcosa per lei.

Perchè no?

Il fatto che dal punto di vista della comunicazione non sia garbata non può escludere che abbia qualcosa da dire, che dimostri apprensione giustificata, che abbia sentimenti da trasmettere, che sia preda di incertezze o emozioni da trasferire. Insomma, un essere umano. Niente di più nè niente di meno. Stento a crederci, ma la stessa donna che sta cercando di farmi passare cinque minuti di sventura è il primo vero problema clinico della serata. Il mio menù di scartoffie da ufficio che all’inizio della telefonata rappresentava qualcosa che riguardava “più strettamente le mie competenze” è incenerito.

Che cosa è successo?

Probabilmente si è attivata qualche sinapsi ed è nata l’intuizione di spostare il corollario della mia professione dal centro e rimettere le cose a posto. Un recupero di giudizio della realtà e il riconoscimento di un valore relativo a ciò che è meno essenziale. La riscoperta dell’essenza della questione mi permette di vedere lucidamente il problema e mi dà la possibilità di tornare ad avere una funzione efficace, utile per chi mi incontra.

In effetti ho sempre pensato di avere un ruolo, nei contesti in cui vivo, per quello che ho imparato e che so fare. In fondo il mio ruolo, la mia parte, è ciò che mi qualifica nei rapporti con le persone che conosco e che incontro. Sono marito, padre, amico e ognuna delle cose che faccio mi identifica e mi descrive. Ma in questo momento sono il medico e ciò che ci si aspetta da me è che mi prenda cura di chi ha un bisogno di salute. Appunto, l’essere umano di cui sopra, proprio lei, torna, forse finalmente, al centro della vicenda. Non è certo una mia concessione, ma la caparbia determinazione dimostrata dalla mia interlocutrice.

Vivo una sorta di rivelazione che mi permette di intuire l’importanza di rimettere l’uomo al centro. L’ uomo e ovviamente i suoi bisogni. Mi si chiarisce sempre di più che il mio ruolo è funzionale a migliorare il benessere dell’uomo e che faccio la mia parte per qualcuno e non per qualcosa. È un lavoro il mio, certo, ma oltre a un valore economico ha anche un valore sociale, sempre più evidente con il passare dei mesi dall’inizio della pandemia. Quanti hanno incertezza e paura per quello che sta succedendo a causa del Coronavirus? Milioni oppure miliardi di uomini? Davvero un lavoro come il mio ha solo una valenza economica? E quanti altri lavori, in questa situazione, con occhi onesti e mente libera, si scoprono per non avere solo una valenza economica?

Questa è la mia piccola rivelazione telefonica: nella vita faccio qualcosa per qualcun altro. Qualcosa che è utile a qualcun altro e che viene retribuito per ciò che vale. Semplice, ma ben diverso dall’agire per essere retribuiti. Perdere di vista l’obiettivo innesca un meccanismo perverso per cui il valore monetario della professione ne diventa il motivo.

Ma il colpo finale arriva inaspettato, quando la telefonata si libera del tono minaccioso e la mia interlocutrice sguaina la spada e prepara la stoccata: “la prego, è mia sorella”, violando definitivamente il mio aplomb professionale e buttando nella mischia ciò che di più umano non si può: l’emozione, il sentimento, il patrimonio morale dell’animo, la coscienza inconsapevole di appartenere a una comunità di uomini.

Sarà per disorientamento o per emotività, ma a questo punto è chiaro che non mi posso più tirare indietro e le emozioni, le mie questa volta, sono il motorino d’avviamento per iniziare a parlare. La passione nel fare qualcosa per l’uomo è il carburante per alimentare il motore della conversazione che scorrerà fluida per alcuni minuti, non molti di più di quanto avessi preventivato per i monosillabi di circostanza, però con risultati apprezzabili dalla positiva variazione di tono della voce telefonica.

Tutto qui? Beh, si. Tutto qui. Come è normale che sia, per una telefonata coperta da segreto professionale.

Paolo Previde Massara