Tennis e mental coach

Non so se a Juan Martin Del Potro, in questi mesi, siano fischiate le orecchie. Forse, alto com’è, gli fischiano sempre per via del vento, che dalle parti della sua testa e della sua faccia buona soffia più forte. Sta di fatto che in questi mesi l’ho pensato e nominato spesso, portandolo tante volte come esempio ai ragazzi con cui lavoro per la sua capacità di resistere alla sofferenza fisica, alla frustrazione, alla tristezza, allo sconforto.

Ci vuole molta forza d’animo per affrontare quattro operazioni al polso nel giro di tre anni, dal 2012 al 2015. Ci vuole molta umiltà per accettare di ripartire al di sotto della seicentesima posizione mondiale, quando si è stati numero quattro del ranking ATP. Ci vuole coraggio, infine, per accettare che le cose non torneranno mai più come erano prima e che, dunque, sarà lui a dover cambiare, a dover mettere in discussione il suo modo di giocare un colpo, il rovescio a due mani, per il quale il polso sinistro, tante volte operato, è così fondamentale.

Nel marzo del 2015 lo avevo visto giocare e perdere 6-4 7-6 un incontro al Miami Open con Pospisil. Giocava un colpo che non gli avevo mai visto fare, il rovescio in back, e ogni volta che colpiva la palla provavo la pena profonda che sento quando vedo uno zoppo che corre, perché in fondo a quei gesti, quello di Juan Martin e quello dello zoppo, sono così evidenti l’immenso sforzo di volontà dell’essere umano e insieme i limiti contro cui quella stessa volontà si confronta. Giocava male, Del Potro, perché quel dolore al polso sinistro non condizionava soltanto il suo rovescio, ma tutto il suo gioco, anzi il suo essere atleta e forse anche il suo essere uomo. Qui, proprio qui, inizia la sua grande forza. Dentro tutta questa difficoltà, dentro tutta questa sofferenza, quell’uomo alto quanto una montagna trova il desiderio non soltanto di resistere e di provarci ancora, ma addirittura di migliorare.

Così, mentre lavora ogni giorno al recupero del polso, che passa attraverso il superamento del dolore fisico, il rafforzamento dei muscoli dell’avambraccio, la fisioterapia, gli esercizi in palestra e in campo, Del Potro arricchisce il suo repertorio di un colpo che prima non aveva. Accanto al rovescio a due mani, che però gioca in modo nuovo perché con il polso sinistro non passa più al di sotto della palla e dunque può colpire quasi soltanto piatto, lavora ad un rovescio in back che non è più soltanto difesa dal dolore, ma un colpo che su certe superfici può diventare un’arma importante.

Non seguo i suoi match passo passo, lo ammetto, e lo ritrovo al secondo turno di Wimbledon 2016 dove batte Wawrinka in quattro set dopo aver perso il primo. Uscirà al turno successivo sconfitto da Puille, ma tanto mi basta per vedere la trasformazione. Quello che osservo sull’erba un po’ spelacchiata e forse per questo tanto romantica di Wimbledon è un giocatore ritrovato, un uomo che dall’inferno delle sale operatorie e dall’orlo del baratro rappresentato dall’abbandono dell’attività ha saputo ritornare come se non migliore di prima.

Della sua Olimpiade, che giocherà poche settimane dopo, oltre agli aspetti sportivi e alle straordinarie vittorie con Djokovich e con Nadal, mi colpiscono soprattutto due cose. La prima è l’abbraccio con Nole, a fine match: il campione serbo lo stringe a sé per parlargli e per dirgli piano quanto avrebbe poi dichiarato in conferenza stampa al mondo, vale a dire tutta la sua stima e la sua ammirazione per un avversario che ha appena giocato così bene e che ha superato i calci e gli sputi della fortuna contro quel povero polso. La seconda è la dichiarazione di Del Potro dopo la finale persa con Murray: Juan Martin ammette, molto semplicemente, la superiorità dell’avversario, la sua maggiore lucidità e intelligenza. Questi due momenti mi rimangono ben fissi dentro, perché sono convinto che un’altra caratteristica fondamentale dei veri campioni sia saper riconoscere i meriti dell’avversario e dunque anche le proprie reali capacità. Purtroppo, in questo, siamo molto male abituati dalle dichiarazioni così spesso isteriche e poco edificanti che ci offre il mondo del calcio, dove la capacità di perdere e dunque anche quella di vincere sono state disintegrate, nel tempo, dalla supremazia becera dei soldi sibutramine 15mg .

L’ultima volta che ho visto Del Potro in tv è stato durante il suo incontro con Murray nella semifinale di Davis, giocata a Glasgow. Dopo cinque set e cinque ore di gioco, l’argentino vince in casa, anzi potremmo quasi dire in camera del numero due del mondo. E’ il match più lungo della sua vita. Alla fine alza le braccia al cielo, Delpo, ma la sua pare un’esultanza contenuta. Con Murray si stringono la mano curiosamente, come se si incontrassero per strada dopo appena qualche giorno di lontananza. Poi stringe la mano all’arbitro, all’allenatore britannico e al suo allenatore. In quel momento succede quello che mi aspettavo, anche se solo confusamente. Juan Martin si avvicina alla sua squadra e abbraccia tutti, ma uno per volta, come se a ognuno volesse esprimere qualcosa, come se con ognuno volesse condividere la sua felicità e allora penso è ovvio, un uomo così grande non può non sapere cosa significhi essere grati.

Stefano Massari

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